idee e pensieri - come un diario

 

Succedono cose che lasciano il segno.
A volte sono solo fatti che vengono raccontati dai giornali, dalla radio o dalla televisione.
Altre volte sono avvenimenti più personali, più intimi, che ci toccano da vicino ma che nascono più dal nostro animo.
Questo spazio è dedicato alle mie riflessioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7 maggio 2009

 Il Lavoro si  promuove, il lavoro si difende, il lavoro è un valore se è di tutti e non di pochi

 

 

  1. Il lavoro è il mezzo attraverso il quale l’uomo trasforma elementi e parti della realtà pre-esistente e  rende il tal modo la realtà materiale e immateriale utile per sé e per la collettività
  2. Il lavoro non è solo lavoro salariato, miliardi di individuo nel mondo lavorano senza avere un corrispettivo in denaro. La società in cui viviamo è connotata però dal lavoro salariato perché si scambiano le prestazioni lavorative con un corrispettivo in denaro;
  3. nel mondo, la distribuzione del lavoro, per quantità e per qualità è molto variata nell’ultimo secolo e in modo particolare negli ultimi 20 anni. Cambia la distribuzione anche in Europa e nel nostro paese e nel tempo sono cambiati i soggetti che interpretano il ruolo degli imprenditori, degli artigiani, dei commercianti, degli operai, dei commessi, dei collaboratori famigliari, degli assistenti domiciliari, etc. La trasmissione del mestiere da una generazione ad un’altra non esiste quasi più, la “vocazione” territoriale di un particolare paesino per una peculiare occupazione non si riesce più a identificarla nettamente come  accadeva fino a pochi anni fa e le migrazioni per motivi di lavoro interessano, per ora, piccole  minoranze di italiani e grandi minoranze di cittadini appartenenti a paesi africani ed asiatici;
  4. l’Europa che ha dato vita dall’inizio degli anni 90 all’Unione Europea, ora di 27 paesi, si è interrogata a lungo su come esprimere una propria “linea guida”  in materia di lavoro e con il Consiglio europeo di Lisbona del 2000, ha deciso di porre, quale obiettivo prioritario per il secolo XXI, quello della crescita occupazionale accanto all’obiettivo di costruire l’economia più competitiva del globo, basata sulla società della conoscenza.  In sede di Consiglio si decisero degli obiettivi quantificati in termini di percentuale di popolazione occupata (70% in totale, 60% per le donne, 50% per gli over 55)) e di popolazione adulta impegnata nelle pratiche dell’apprendimento di nuove conoscenze e competenze (12%, poi 10%, Italia al 6.1%);
  5. Gli Obiettivi di Lisbona sono gli Obiettivi di tutti gli Stati membri e quindi anche dell’Italia, paese nel quale si vedono i maggiori ritardi soprattutto su due punti qualificanti:

-         il tasso di occupazione femminile

-         il tasso di cittadini partecipanti all’educazione  degli adulti;

  1. In molti paesi il maggior tasso di attività, ovvero il maggior numero di occupati ( e di disoccupati in cerca di lavoro) si è spiegato  con il maggior ricorso a forme contrattuali di lavoro più flessibili come il part time e i contratti a tempo determinato o di lavoro intermittente (o interinale). Questo spiega una parte delle diverse performance dei singoli paesi, un’altra parte si spiega con un diverso atteggiamento delle imprese nel momento di reclutare la manodopera e in una assai diversa organizzazione sociale che prevede un numero assai maggiore di servizi disponibili per la popolazione che ha maggiori impegni di cura della prole e di cura delle persone anziane o non sufficienti. Si spiega anche con il diverso assetto del quadro degli Ammortizzatori sociali (da noi disponibili solo per la minoranza di lavoratori dipendenti inserita nelle imprese maggiori) e con la diversa dimensione delle imprese;
  2. L’Europa è impegnata a far crescere il lavoro pur con la consapevolezza che gli Obiettivi indicati nel Consiglio di Lisbona non verranno raggiunti nel 2010, come auspicato e previsto, ma, sulla base dei dati disponibili,  siamo certi che le performances dell’Italia, nel novero dei 27 paesi, saranno tra le peggiori, sia sul fronte dell’occupazione che sul fronte dell’educazione dei 38 milioni di adulti (23.5 milioni dei quali occupati). E questo a prescindere dalla recente crisi finanziaria ed economica che ha preso avvio solo nel 2008;
  3. Allora quali sono i principali problemi afferenti al tema del lavoro con i quali l’Italia deve necessariamente fare i conti già in questi mesi del 2009 e quando si susseguono i dati sul calo della produzione industriale, sul ristagno dei consumi e sull’inversione di tendenza in materia di occupazione?
  4. La crescita occupazionale degli ultimi 5 anni è dovuta essenzialmente a due fenomeni: la regolarizzazione di molti contratti di lavoro al nero affidato a immigrati, oggetto delle recenti sanatorie, (e questo spiega bene la crescita occupazionale senza crescita del PIL , giacchè gli immigrati già lavoravano e quindi già producendo ricchezza pur non essendo conteggiati nelle statistiche del lavoro). Si è verificata una crescita dell’occupazione formale senza crescita della ricchezza prodotta e questo significa una riduzione netta della “produttività pro capite”. In secondo luogo si è verificato  un aumento esponenziale della pratica dei contratti di breve durata e dei contratti di collaborazione (o contratti a progetto). In questo caso sono aumentate molto le “teste”, ovvero  i cittadini che hanno contratti di lavoro, ma sono aumentate molto meno, complessivamente, le giornate lavorate (come conseguenza, aumento dell’occupazione e aumento contestuale della produzione di beni e servizi).
  5. Se il lavoro viene distribuito fra più soggetti ne deriva un beneficio se la remunerazione (il salario fornito) del lavoro del singolo soggetto occupato supera una determinata soglia (salario di cittadinanza), mentre, se rimane al di sotto di quella soglia il lavoro “distribuito” (shared) tra una moltitudine di cittadini  non allontana il soggetto (diventato lavoratore) dalla povertà, dalla marginalità, dalla necessità di chiedere contributo alla famiglia di origine o, in subordine, ai servizi sociali. Questa è a precarietà di cui tanto si parla: l’impossibilità di avere uno “status” di cittadino a tutto tondo, con un reddito, con un ruolo fattivo, con la possibilità di contrarre obblighi a favore di terzi per garantire a sé (ed eventualmente  alla sua famiglia) un futuro (migliore);
  6. in Italia ci sono 24 milioni di posizioni lavorative così distribuite: 11,5 dipendenti delle imprese private, 3,5 milioni di dipendenti della Pubblica amministrazione, 6,5 milioni circa di titolari di impresa, professionisti, “partite IVA”, etc. e 2,5  milioni circa di “precari” o di “lavoratori flessibili”. Quasi il 50% di questi lavoratori non possiede un titolo di studi superiore (dalla Scuola secondaria superiore in su) e nel privato la percentuale è di poco superiore al 40%. I livelli di inquadramento più diffusi sono quello di operaio comune  e di impiegato di concetto.
  7. Le “ditte” iscritte nei registri pubblici sono circa 5,5 milioni ma le imprese con dipendenti sono circa 1,1 milioni. Le imprese con più di 500 dipendenti sono meno di 2000, quelle grandi (più di 250 dipendenti) sono circa 3.500 e ben 6,5 milioni di lavoratori sono i dipendenti di imprese con meno di 15 dipendenti, fuori quindi sia dalla soglia prevista dallo Statuto dei lavoratori ( la legge 300 del 1970) per la giusta causa nei licenziamenti che dalle norme per la Cassa Integrazione Straordinaria (al netto delle deroghe ora decise in periodo di crisi);
  8. le imprese cha nascono hanno una aspettativa di vita molto limitata: delle circa 350.000 imprese nate nel  2000, dopo 5 anni ne rimanevano un vita il 55%. Con la sparizione delle 170.000 imprese erano venuti meno sia posti di lavoro dipendente che posizioni di occupazione per titolari e famigliari.
  9. Tutelare il lavoro che c’è, in Italia significa rendere atto della nati-mortalità delle micro- imprese ancor più che della crisi dei grandi gruppi industriali o terziari, almeno d un punto di vista meramente statistico. Le perdite continue di occupati nelle Grandi imprese Industriali (con più di 500 dipendenti) di cui danno conto ricorrentemente gli organi di stampa,  tradotte in valori assoluti rappresentano poche centinaia di individui che non sono più occupati in quelle imprese ogni sei mesi (sappiamo che nel frattempo si sono ricollocati in imprese più piccole, hanno aperto attività in proprio, sono interessati da forme di politica attiva del lavoro, etc.) a fronte invece di decine di migliaia di soggetti che rimangono senza lavoro per la chiusura della piccola e micro impresa e non hanno alcuna possibilità di fare un salto verso imprese di maggiori dimensioni, non hanno buonuscita per potersi mettere in proprio, non hanno ammortizzatori sociali che possano tutelarli in un processo di ricollocazione  su altri mercati del lavoro.
  10. A perdere il lavoro, nel caso della crisi e della chiusura di una micro impresa non  è solo il lavoratore dipendente, ma è spesso anche il titolare che si trova in gravi difficoltà e con esso i soci, i famigliari, tutti espressione di una società articolata come quella italiana che vede, per esempio, dal punto di vista dei titoli di istruzione posseduti dai 650.000 imprenditori censiti dall’Istat nel 2001, una distribuzione dei diplomi e delle lauree assolutamente identici a quelli dei loro operai e impiegati;
  11. il lavoro italiano è debole perché sono deboli molte delle sue componenti fondamentali, in primo luogo  la capacità di promuovere  innovazione e ricerca, di ideare soluzioni avanzate che permettano di realizzare non solo innovazione di processo, come noi abbiamo realizzato nei nostri distretti industriali tradizionali caratterizzati dai prodotti considerati simbolo del Made in Italy, ma anche innovazione di prodotto.
  12. per fare questo servono politiche serie e coerenti. Bisogna difendere il lavoro tutelando i lavoratori che perdono il lavoro e aiutando coloro che avranno più difficoltà a trovare lavoro in un periodo di crisi come questo e costruendo nel contempo le condizioni per lo sviluppo di una nuova economia che si basi non solo sui distretti manifatturieri tradizionali ma anche su nuove aziende che producano conoscenza, cultura, servizi per le persone, beni alimentari di qualità, prodotti per la vita collettiva e per il benessere della popolazione sempre più anziana, mezzi di trasporto rispettosi della natura della terra, strumenti per la cura, etc.  

 31 dicembre 2008

Capodanno  a Novalesa

 

Neve, neve, neve e niente botti

 

Amici tanti e dodici rintocchi

 

 

 

 

 

16 NOVEMBRE 07

 

Esisteva  a Roma un Istituto di Ricerca.

 

Esisteva  a Roma un Istituto di Ricerca che si chiamava ISFOL – Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei lavoratori

 

Esisteva  a Roma un Istituto di Ricerca che si chiamava ISFOL – Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei lavoratori che presentava a novembre di ciascun anno un Rapporto Isfol

 

Esisteva  a Roma un Istituto di Ricerca che si chiamava ISFOL – Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei lavoratori che presentava a novembre di ciascun anno un Rapporto Isfol che parlava di Formazione e  di Lavoro

 

Esisteva  a Roma un Istituto di Ricerca che si chiamava ISFOL – Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei lavoratori che presentava a novembre di ciascun anno un Rapporto Isfol che parlava di Formazione e  di Lavoro e l’appuntamento di novembre era un Evento importante per la vita dell’Istituto, anzi l’Evento

 

Esisteva  a Roma un Istituto di Ricerca che si chiamava ISFOL – Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei lavoratori che presentava a novembre di ciascun anno un Rapporto Isfol che parlava di Formazione e  di Lavoro e l’appuntamento di novembre era un Evento importante per la vita dell’Istituto, anzi l’Evento. Il Rapporto era scritto da tutti i ricercatori dell’Istituto e i loro nomi erano indicati nei credits, si presentavano dati originali e si raccontava, in via indiretta, la vita dell’Istituto attraverso i risultati dei propri studi.

 

Esisteva  a Roma un Istituto di Ricerca che si chiamava ISFOL – Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei lavoratori che presentava a novembre di ciascun anno un Rapporto Isfol che parlava di Formazione e  di Lavoro e l’appuntamento di novembre era un Evento importante per la vita dell’Istituto, anzi l’Evento. Il Rapporto era scritto da tutti i ricercatori dell’Istituto e i loro nomi erano indicati nei credits, si presentavano dati originali e si raccontava, in via indiretta, la vita dell’Istituto attraverso i risultati dei propri studi. Per evitare che si “bruciassero” i dati originali esisteva l’embargo del Rapporto sino al momento della conferenza stampa il giorno prima della presentazione pubblica del Rapporto. Si limitavano tutte le uscite pubbliche dell’Isfol il ottobre-novembre per non togliere appeal all’appuntamento della presentazione del Rapporto.

 

(dopo aver letto La Repubblica di oggi 16 novembre 2007)

 

Esiste a Roma un Istituto di ricerca che si chiama Isfol -  istituto per la formazione del lavoro, che ha fatto uno studio sui raccomandati.

 

Esiste a Roma un Istituto di ricerca che si chiama Isfol -  istituto per la formazione del lavoro, che ha fatto uno studio sui raccomandati. Questo studio è il Rapporto annuale dell’Isfol “che verrà presentato a Roma il 21 novembre”

 

Esiste a Roma un Istituto di ricerca che si chiama Isfol -  istituto per la formazione del lavoro, che ha fatto uno studio sui raccomandati. Questo studio è il Rapporto annuale dell’Isfol “che verrà presentato a Roma il 21 novembre”. Il Rapporto dell’Isfol non è più oggetto di embargo se vengono pubblicate sul giornale tabelle che si intende siano prese dal Rapporto.

 

Esiste a Roma un Istituto di ricerca che si chiama Isfol -  istituto per la formazione del lavoro, che ha fatto uno studio sui raccomandati. Questo studio è il Rapporto annuale dell’Isfol “che verrà presentato a Roma il 21 novembre”. Il Rapporto dell’Isfol non è più oggetto di embargo se vengono pubblicate sul giornale tabelle che si intende siano prese dal Rapporto. In questo Istituto i dati del Rapporto non vengono presentati e commentati dal Presidente (che illustrerà ai giornalisti il 20 e agli interlocutori istituzionali e agli addetti  ai lavori il 21 il Rapporto) ma da una prestigiosa ricercatrice dell’Istituto e “chiosati” da De Masi.

 

Esiste a Roma un Istituto di ricerca che si chiama Isfol -  istituto per la formazione del lavoro, che ha fatto uno studio sui raccomandati. Questo studio è il Rapporto annuale dell’Isfol “che verrà presentato a Roma il 21 novembre”. Il Rapporto dell’Isfol non è più oggetto di embargo se vengono pubblicate sul giornale tabelle che si intende siano prese dal Rapporto. In questo Istituto i dati del Rapporto non vengono presentati e commentati dal Presidente (che illustrerà ai giornalisti il 20 e agli interlocutori istituzionali e agli addetti  ai lavori il 21 il Rapporto) ma da una prestigiosa ricercatrice dell’Istituto e “chiosati” da De Masi. I dati illustrati possono essere interpretati in vari modi, come sempre, ma sembra che l’Isfol non sia d’accordo che i Centri per l’impiego provinciali si occupino della parte più svantaggiata del mercato del lavoro. Si dice anche che, “semplicemente non funzionano”, i centri pubblici. E si intende, tutti. Lo dice La Repubblica. E lo dice sulla base del Rapporto Isfol 2007.

 

Esiste a Roma un Istituto di ricerca che si chiama Isfol -  istituto per la formazione del lavoro, che ha fatto uno studio sui raccomandati. Questo studio è il Rapporto annuale dell’Isfol “che verrà presentato a Roma il 21 novembre”. Il Rapporto dell’Isfol non è più oggetto di embargo se vengono pubblicate sul giornale tabelle che si intende siano prese dal Rapporto. In questo Istituto i dati del Rapporto non vengono presentati e commentati dal Presidente (che illustrerà ai giornalisti il 20 e agli interlocutori istituzionali e agli addetti  ai lavori il 21 il Rapporto) ma da una prestigiosa ricercatrice dell’Istituto e “chiosati” da De Masi. I dati illustrati possono essere interpretati in vari modi, come sempre, ma sembra che l’Isfol non sia d’accordo che i Centri per l’impiego provinciali si occupino della parte più svantaggiata del mercato del lavoro. Si dice anche che, “semplicemente non funzionano”, i centri pubblici. E si intende, tutti. Lo dice La Repubblica. E lo dice sulla base del Rapporto Isfol 2007. Se l’Istituto voleva recuperare un rapporto con la stampa, aumentare l’attenzione dei giornalisti, doveva puntare sui temi del lavoro, ché della formazione a nessuno cale. Certo, convengo che  è difficile dialogare con la stampa nazionale, servirebbero agganci, bisognerebbe conoscere qualcuno. E allora perchè non usare per comunicare con la stampa, e in particolare con la Repubblica  quanto detto nel titolo del servizio a pagina 32 “Quando il lavoro è un affare di famiglia”?.

 

Esisteva a Roma un Istituto di ricerca, ora forse non  più.

Al suo posto ormai esiste un ente pubblico dove le regole vengono dettate ma non vengono mai rispettate, per esigenze di servizio, ovviamente, e dove  “quattro persone su dieci trovano il posto grazie alle segnalazioni di parenti e amici. Lo dice il Rapporto Isfol 2007. E’ un dato scientifico.

 

 

 

10 OTTOBRE 2007

Oggi ho votato sì alla consultazione voluta dal sindacato.

Non sono molto convinto di alcuni dei punti previsti dall’accordo e credo che sarebbe stato meglio sottoporre alla votazione il documento per punti, come si fa per i testi di legge che hanno due letture, una globale e un’altra per parti separate. L’accordo tocca troppe materie: la previdenza, l’assistenza, gli ammortizzatori sociali, la riforma delle pensioni e il superamento dello “scalone Maroni”, il precariato e altro ancora. Ho osservato che all’Isfol ha votato solo il 28% dei lavoratori “aventi diritto”. Pochi. Un tempo queste strutture avevano una forte rappresentanza sindacale. Oggi noi ci occupiamo di politiche attive e dei problemi dei lavoratori ma ci comportiamo come quella parte dei lavoratori che pensano che i problemi non si  debbano affrontano in una dimensione collettiva. Meglio fare da soli o rivolgendosi a leadership del momento. Credo che serva l’organizzazione e credo che questa debba essere democratica.

La consultazione, con tutti i suoi limiti, è stata un esercizio di democrazia. Quella democrazia dal basso e nei luoghi di lavoro cui non siamo abituati. Esprimere il proprio punto di vista anche con un no è importante. Spero che il testo dell’accordo venga migliorato. (per la cronaca, hanno vinto i sì con circa l’80% dei voti).

Certo, Padoa Schioppa vigila perché non ci siamo spese che ci spingano fuori dai parametri di Maastricht, ma sarà poi vero che il nostro paese stia poi così male?

Certo, l’economia va male, la società è vecchia e impreparata ad affrontare le sfide della globalizzazione, la cultura è un’appendice della televisione commerciale (ed è commerciale anche quella di Stato…),…

Ma allora, se le cose stanno così, perché si decide di far crescere l’Isfol senza un criterio di rigore? E’ forse questo lo sviluppo della società della conoscenza e dell’economia  della conoscenza di cui favoleggiamo invocando Lisbona 2000 ?

 

7 ottobre 2007

Oggi è la giornata dell’Eroica. Non quella sinfonia che ho conosciuto da ragazzo ma la corsa di ciclisti d’epoca che si tiene ogni anno a Gaiole in Chianti.

Uno dei migliori modi di stressare il fisico  e la mente seguendo la luce dell’autunno lungo le strade sterrate delle colline e di boschi del Chianti. 2400 ciclisti fra i quali spiccavano vecchie glorie e randonneurs abituati alle uscite in bici di 200 chilometri che si sono dati appuntamento con le bici d’epoca per rivivere miti e per inseguire sogni ad occhi aperti. Una poesia lunga 75 chilometri.

Nel Diario della bici, all’interno di questo sito web, ho fatto la cronaca della giornata e ho messo in linea alcune immagini scattate con il Nokia e con la Nikon che fanno vedere le facce, le maglie e le bici dell’Eroica. Andate a vederle.

  

20 giugno 2007

Franco Frigo , il sindacato e l’Isfol

Ho lavorato per il sindacato (all’Isril) quando ero un giovane ricercatore e imparavo da Pietro Merli Brandini e da Giuseppe Bianchi come si poteva studiare l’evoluzione delle professionalità e l’impatto delle lotte dei lavoratori della fine degli anni 60. La cosa che mi ha colpito di più in quegli anni (io giovane ingenuo sessantottino provinciale) è stato lo scoprire che il sindacato non era che una delle tante organizzazioni sociali che creava classe dirigente e più il sindacato era legato al mondo cattolico e più i suoi dirigenti avevano il futuro garantito. Dalla Cisl si passava all’aula del Parlamento o alla Direzione generale (o Presidenza) di una società delle Partecipazioni Statali o di un Ente pubblico di rilevanza nazionale.

Per molti anni questa prassi ha riguardato essenzialmente la Cisl. Poi è venuto il momento della Uil. I socialisti della UIL erano tutti manager, manager per tutte le stagioni.

Ora l’aria è cambiata. I tempi sono diversi da quando il Muro di Berlino è crollato, da quando il PCI è diventato DS, e cambierà  ancora con il nuovo PD.

Nel “Piccolo Mondo” nuovo nel quale io mi trovo le cose sono già cambiate.

Il Direttore Generale dell’Isfol ha una curriculum nel quale spiccano i 25 anni passati nella CGIL come responsabile di Federazioni o di strutture regionali e il Dirigente della Divisione del Ministereo del Lavoro con la quale mi confronto e collaboro viene dalla stessa organizzazione sindacale.

Abbiamo un Ministro del Lavoro che viene dalla CGIL e abbiamo dei dirigenti di strutture pubbliche che vengono dalla CGIL. C’è coerenza nelle scelte del Ministro che vuole garantirsi interlocutori affidabili, oltre che validi. Si fa fatica  pensare che non vi fossero altri candidati a ricoprire quelle posizioni altrettanto preparati e affidabili per l’Amministrazione.

Un tempo ci si schierava con lo Stato o contro lo Stato. Per i funzionari pubblici si può solo schierarsi dalla parte dello Stato. Non ci sono opzioni o alternative. Dalla parte dello Stato e non dalla parte del Governo. E nemmeno, peggio, dalla parte del Ministro. O, ancora peggio, dalla parte di quel Sottosegretario e non dalla parte di “quel” Ministro.

Il Sindacato era presente nel Consiglio di Amministrazione dell’Isfol, contribuiva a definire gli obiettivi e approvava il bilancio e gli affidamenti esterni. Ora non lo abbiamo più nel CdA ma, come ho riferito, è ben presente.

Lo stesso sindacato è quello di cui io da 32 anni, da quando sono all’Isfol, ho la tessera, perché io sostengo le sue lotte e perché vorrei che mi sostenesse a sua volta. Che difendesse il mio presente e mi aiutasse a costruire con gli altri lavoratori il nostro e il mio futuro (lavorativo).

Sono entrato all’Isfol il 2 settembre del 1974 e due mesi dopo ero il segretario della CGIL dell’Isfol. Allora era l’unico sindacato, c’erano iscritti anche i pochi dirigenti e i ricercatori. Mi battevo per un sindacato che rivendicasse migliori condizioni ma che fosse anche di progetto e di proposta. In un Ente pubblico di ricerca mi sembrava e mi sembra tuttora che non vi debba essere rottura della continuità tra lotta e proposta. Quando nel 1981 ho passato la mano come segretario a una collega (che dieci anni è Direttore Generale al Ministero del Lavoro) sono stato scavalcato “a sinistra” con slogan e posizioni che tendevano a creare un sindacato di pura rivendicazione, senza alcuna responsabilità sul progetto di Istituto di cui si dovevano responsabilizzare solo i “vertici” (leggi il Presidente e il Direttore Generale).

Sembra cronaca di un tempo lontano ma quando rifletto su quanto accade in queste ore nel piccolo mondo dell’Isfol non posso non riandare a quel periodo e al riproporsi di logiche già vissute e di tentativi reiterati di raddrizzare curve che non si possono tagliare senza gravi danni.

Noi siamo tra i teorici della complessità, ma quando agiamo ci dimentichiamo di rispettare la realtà e di chiamarla con i tanti nomi e con le tante identità di cui è intrisa.

Nelle foto che ho stampato recentemente sulla giornata del 17 febbraio del 1977 all’Università La Sapienza di Roma (il giorno di Lama) mi ha sorpreso di trovare un cartello contro “la Precarietà del lavoro intellettuale”. Avevo dimenticato che già trent’anni fa nelle Università “precari si era già”. Si lavorava gratis o per poche lire per i professori che nel frattempo erano troppo impegnati in ricche consulenze o in importanti ruoli politici di rappresentanza e si penava per avere una prospettiva concreta come ricercatori universitari.

Ora il fenomeno è esploso ed esistono quasi solo “precari”.

Precario è un aggettivo che si accompagna ad un sostantivo.

Dov’è finito il sostantivo? Si è perso nel momento di semplificare la complessità?

Fa più comodo farsi vedere e raccontarsi come “aggetto” piuttosto che come “soggetto”?

La vicenda del precariato all’Isfol, così come in  molte altre realtà pubbliche, sono convinto si risolverà, con i tempi più lunghi del dovuto, ma si risolverà.

E l’Isfol avrà ancora il problema di sovrabbondanza di risorse, come in tutti gli anni recenti, e non un problema di scarsità di risorse finanziarie.
Quello che temo è che, a fronte  di risorse finanziarie certe e in grado di garantire lo stipendio a centinaia di ricercatori e assistenti e funzionari e ausiliari e facchini e tecnologi, etc. etc. si riveli presto una gap più difficilmente colmabile. Quello relativo alla mancata disponibilità di soggetti.

Tolta la precarietà che resterà?

Come già oggi capita spesso, avremo bisogno di ricorrere ad altri precari per tenere acceso il motore della macchina Isfol?

Avremo bisogno di grandi esperti per ideare le nostre ricerche? E di tante società per realizzarle? E di giornalisti per farci narrare? E di Comitati Scientifici per poterci garantire l’accesso alla comunità scientifica?

Non è invece questo il periodo da dedicare a costruire al nostro interno un possibile percorso di cooperazione,di collaborazione. Un tempo da dedicare al superamento dei muri e degli steccati che abbiamo innalzato per almeno dieci anni, per reimparare un linguaggio comune che abbiamo disimparato ad usare nelle nostre relazioni.

In questo percorso io penso che il sindacato debba svolgere un ruolo attivo. Un sindacato che rappresenti tutti.

Non un’Associazione professionale dei soli ricercatori. Non un’assemblea che riunisce come i CUB di un tempo tutti coloro che sono come proiettili sparati verso un solo bersaglio, quello della “stabilizzazione”.

Non un sindacato che tutela gli uni e non gli altri ma un Sindacato che raccoglie le domande, che ascolta, che elabora posizioni collettive e condivise, che propone e che stimola, che impegna la controparte e che , se serve si sostituisce ad essa quando vede un deficit di progetto.

Un Ente di ricerca che si rispetti non può avere un deficit di progetto in nessuna delle sue parti e nelle fasi di cambiamento il progetto deve riguardare tutti gli aspetti delle vita e del funzionamento di un organismo vivo.

Senza progetto niente.

Senza un disegno per la ricerca niente.  

Senza un disegno per la gestione, niente.

Senza un progetto per i servizi, niente.

Senza un disegno per la comunicazione, niente.

Senza il Soggetto, niente.

……….

 

 

15 aprile 2007

Mi sono ricordato le riflessioni che ho fatto assieme a GiovanBattista Montironi nel 1994 alla vigilia delle elezioni. Si fronteggiavano i Progressisti e il “nuovo” esercito del cavalier Berlusconi appena sceso in campo. Ci si domandava cosa fossero i reali interessi in gioco e quale modello di società e soprattutto di economia fosse proposto dai contendenti. Il Professor Montironi, acuto come sempre, ipotizzava che fosse chiaro l’interesse del Blocco  moderato e di destra: vogliono garantire nel tempo spazio alla Meccanica e alla Speculazione Edilizia. Sono un retaggio della seconda rivoluzione industriale con incrostazioni ottocentesche, alleate naturali le banche che nel nostro paese speculano. Dall’altra parte il modello degli interessi tutelati era meno chiaro ma il programma parlava di rivoluzione elettronica, di informatica, di globalizzazione, di Europa, di conoscenza. Si sono succeduti da allora più governi (allora vinse la destra e il “partito del mattone”) ma mentre non si mai verificata la “democrazia elettronica”  che da sempre auspico, in modo molto netto abbiamo visto prevalere, consolidarsi, prevaricare, sondare, travalicare confini di partito, invadere tutte le classi sociali e i ceti  la legge della speculazione edilizia.

E con la “scusa” di difendere la famiglia credo che la “dittatura del mattone”  e la speculazione edilizia prevarranno ancora per molto.

Purtroppo dobbiamo dirci che l’Italia è una Repubblica fondata sul mattone e sui mutui per la casa (ovvero  sui debiti garantiti per tutti per 20 o 30 anni per avere una casa che rappresenterà nel tempo un ostacolo per la modernizzazione del paese)

 

14 aprile 2007

Quando i fatti di cronaca toccano il quartiere in cui si vive e si scoprono legami con vicini e famigliari vien da chiedersi qual è la città in cui si vive quali sono i cittadini che la abitano, chi sono i giovani che riempiono le nostre strade di giorno e ancor più di notte, quando noi siamo chiusi in casa. Mi ha colpito la morte “accidentale” del “giovane 22enne di Montesacro  colpito da un amico con un coltello per risolvere con un gesto tragico un debito di 300 euro di cocaina (così hanno raccontato i giornali). I ragazzi si conoscevano, li conoscevano entrambi  ragazzi loro coetanei che li avevano visti allontanarsi prima della conclusione tragica, loro sapevano probabilmente di che si trattava, sapevano come vanno queste cose, certo non si aspettavano che sarebbe finita così, non lo volevano per loro e nemmeno lo vorrebbero per loro. Ma è poi così lontano quel comportamento dal comportamento di tanti giovani che per “stare più tranquilli girano armati” di coltello o peggio di pistola. Acquistare “la robba” per fumarla o per sniffarla al di là di quello che provoca o produce nell’individuo la droga di per sé significa far parte di un mondo che io immagino “parallelo” rispetto al mio e rispetto a quello di quelli che frequento abitualmente. Quando entro in enoteca ( o la supermercato) per acquistare vino o quando entro in una tabaccheria per acquistare sigarette (per i figli) faccio un gesto “legale” e ho rapporti con persone “normali” che sono inserite nella società e nell’economia del paese, anzi, ho a che fare con persone che sono , in qualche modo “espressione dello Stato” perché trattano merci la cui vendita è regolamentata, quasi come per le medicine vendute in Farmacia. Quando i nostri ragazzi vanno a comperare 10 euro di “fumo” entrano in una realtà parallela, una società nella società, con le proprie regole , i propri giri, i sotterfugi, le violenze nascoste, le catene di connivenza, le relazioni dal piccolo al grande spaccio e si sentiranno, credo, dentro e fuori, per forza, da questo mondo che noi faticosamente abbiamo costruito (e sicuramente lo abbiamo costruito male se poi i ragazzi si ammazzano per 300 euro di coca acquistata per “sballarsi a Capodanno”…).

I figli si crede sempre di conoscerli e si sa che troppo sfuggono alla nostra capacità di comprensione. Più fanno fatica ad uscir di casa e a trovare una propria autonomia e più ci sfuggono. 

 

4 marzo 2007

Oggi è quasi un primo giorno di Primavera. Ho incontrato per  strada i primi raccoglitori di asparagi selvatici mentre tornavo in bici da Sacrofano. Vien voglia di mollare tutto e di vivere all’aperto!

Ci sono stati tanti cambiamenti in questo periodo e tanti se ne prospettano all’orizzonte.

Ieri abbiamo avuto la Luna Rossa, una bella eclissi ben visibile in una notte quasi tersa. E’ anche finito il Festival di Sanremo (ha vinto Cristicchi, credo viva a Sanremo perché non è un cantante che si ascolti durante gli altri mesi dell’anno).

Il Governo ha superato la crisi e Follini è diventato, come paventava De Gregari in un intervista recente per il Venerdì di Repubblica, il salvatore del centro-sinistra.

La sinistra è sempre più in crisi, per fortuna la destra non può godere troppo di un vantaggio competitivo perché anch’essa è in realtà molto divisa.

Nel nostro posto si lavoro anche sono arrivate novità di rilievo. Antonio C., il vecchio (e giovane, perché quarantenne) Direttore se n’è andato tornando in quel di Grosseto ed è arrivato Gianni Principe, dall’Isae e dalla CGIL.

I cambiamenti servono, ne abbiamo un gran bisogno, spero che si cambi molto, sia in linea che in nomi. Quello che temo è il prevalere di atteggiamenti gattopardeschi, speriamo non accada.

Alfredo T. il mio amici ex Dg dell’Isfol mi ha scritto una lunga lettera che prende spunto da quello che avevo scritto in questo diario. Dovrò rispondere con cura e quanto prima.

 

21 gennaio 2007

Per fortuna è domenica. Ieri giornata di “riflessione” dopo una serata passata in un ottimo ristorante (“Le Ninfe” di via Antamoro dove la cucina è raffinata, creativa senza essere concettuale e la musica è di casa) oltre che a mangiar bene a bene benissimo (vini toscani, campani, veneti e friulani con un finale tedesco). Ieri è stata anche la giornata in cui siamo andati a vedere “Il Grande Capo” di Lars von Trier. L’ho trovato ironico, intelligente, costruito con idee che  a mio parere si sono rincorse in fase di realizzazione. Ben recitato. Un film godibile e fatto apposta per tutti coloro che vogliono anche guardarsi dentro mentre si guardano attorno. Peccato che al LUX la sala preveda anche la prima fila a due metri dallo schermo. E noi eravamo proprio in prima fila.

Sono tre giorni che non si fa che parlare del pubblico impiego. Dei dipendenti pubblici fannulloni. Della mobilità. Della necessità di cambiare registro. Sindacati sì, sindacati no. Bisogna concertare tutto oppure no?

Ci sono molte ambiguità  emolti equivoci, credo che per troppo tempo le ambiguità si siano cercate e fortemente volute.

Seguo sia il sindacato che le amministrazioni da più di 30 anni e credo di comprendere come si sia voluto dire e non dire soprattutto per mantenere lo statu quo.

Il nostro è un Paese dove il consenso si è costruito,  a destra come a sinistra, non per le riforme ma per non fare le riforme. Tutti hanno, o credono di avere, qualcosa da perdere in occasione della sia pur minima riforma e cambiamento.

Gli accordi si fanno sulle linee guida, si danno chiari indirizzi e questi si possono condividere.

Ma il sindacato non può entrare nel merito delle sorti della singola posizione, del singolo lavoratore se non per ottimizzare e per far rispettare regole, priorità e procedure. Non per difendere l’indifendibile e le posizioni che non ci sono più, come capita.

Costruire accordi seri non è facile perché occorre necessariamente avere tutte le informazioni sulle mission, sugli obiettivi operativi, sulle dimensioni organizzative, sulle competenze del personale impiegato, etc.

Questo implica uno scambio  di informazioni ricco e costante, che superi la richiesta di segretezza che spesso nasconde la mancanza di indirizzi e di capacità gestionale da parte delle presidenze  e delle amministrazioni in generale.

Chiediamo al sindacato di fare la sua parte mettendolo in condizione di poter valutare  e decidere.

Mettiamo le amministrazioni di fronte alle loro responsabilità, e si sbaglia e non si raggiungono gli obiettivi, si cambia.

Ma chi definisce gli obiettivi?

Nella mia lunga esperienza di ricercatore pubblico non ho mai vista la mia organizzazione pubblica di ricerca definire obiettivi, né di massima né di dettaglio. In queste condizioni solo l’appartenenza al gruppo politico o alla cerchia dei sodali distingue il buon manager pubblico dal manager che va cambiato.

 

18 gennaio 2007

Ha fatto bene Rita a non venire alla Casa del Cinema.

Si sarebbe trovata come me a disagio in un luogo progettato per garantire a tutti il miglior agio.

Combriccole, congreghe,gruppetti di amici, di famigliari, di sodali, di gente legata da vincoli di censo, di ceto, d gruppo, ma soprattutto di tribù.

Ho fatto bene a non fare l’antropologo culturale, troppo avrei avuto da studiare sulle microculture. Riti e miti. Il rito del donare (solo) per poter chiedere, il bello del ritrovarsi e la necessità del riconoscersi uguali e del tutto diversi.

Pochi metri di distanza, uno sguardo nella sala, l’occhio che scruta i gradini, che penetra il buio, che scava dentro i gruppi.

Poi il piede che si muove e trova l’altro piede e l’appoggio.

Un abbraccio di saluto.

E poi…

 

E poi per fortuna il tavolo della presidenza si riempie, sono le 18 e 30 e Zizola è arrivato. E’ arrivata da tempo anche la regista del documentario ( Liliana Ginanneschi) e altri che si capisce dovranno intervenire.

Prende la parola l’esperto che presenta e illustra il lavoro di Francesco Zizola (  Alberto Dentice) e dopo poche parole le luci calano in sala e lo schermo si accende.

Finalmente a mio agio.

 

La prima immagine percorre il corpo di Francesco che cammina nel bush del Lesotho con la sua fotocamera appoggiata dietro la schiena.

Il documentario comincia a raccontare il reportage di Zizola dell’estate scorsa nel paese dell’Africa del sud devastato dalla pandemia dell’Aids.

La macchina  da presa, digitale, segue il fotoreporter nel suo lavoro, nell’incontro con i bambini, con gli anziani, con le vedove.

C’è una piccola videocamera, una microcamera appoggiata sulla macchina fotografica e introduce una “soggettiva” interessante che permette di vedere “in presa diretta” gli scatti anche dal preciso punto di vista dell’autore delle immagini.

Il documentario è bello, Zizola è ben raccontato ed argute sono le osservazioni di Goffredo Fofi e le frasi scritte da Ferdinando Scianna.

Zizola viene seguito anche in studio quando stampa le foto, quando taglia le immagini, quando allestisce la mostra a sant’Egidio, a Trastevere.

Quando le immagini scompaiono, commenti.

 

Parla molto Zizola, un po’ di spazio anche alla regista (“volevo fare la fotografa, poi ho fatto cinema, ho studiato in Sudafrica…”), al produttore (“non c’è mercato per i documentari, per fortuna Rai Educational ha comperato i diritti per l’Italia…”) e anche alcuni autori presenti in sala. Parla anche Stefano, il fratello di Francesco (“deve ancora venire a liberare casa dalla camera oscura, allora quando vieni?).

Si parla del rapporto tra cinema e fotografia. Sempre di immagini si tratta ma ….

Inno alle immagini digitali (“Zizola governa la tecnologia, non si fa guidare, esalta le potenzialità, non ha paura…”).

Tutti noi facciamo fotografie. A volte anche noi ( a me capita) facciamo delle belle fotografie.

Zizola è un bravo fotografo.

Segue un progetto. Un impegno, una scelta di vita, una scelta professionale. Una scelta politica.

Nel 2007? Sì, una scelta di impegno politico che continua.

 

Conoscevo Zizola negli anni ’80. Ci si frequentava, si facevano progetti insieme.

Ci siamo persi di vista e lui è ora uno dei più acclamati fotogiornalisti del mondo.

In genere quando i miei amici diventano famosi (e ricchi) perdono un po’ alla volta le caratteristiche che ne fanno degli amici.

Francesco sembra diverso.

Lontano ma ancora presente.  

 

15 gennaio 2007

Credevo che all’arrivo dei sessant’anni sarebbe stato facile cominciare a parlare nel mio diario delle cose che accadono intorno a me giorno per giorno.

E invece non è successo: Non è così facile parlare di  argomenti diversi dalle mie uscite in bicicletta:

Da troppi anni sono inserito in una struttura, in un ruolo, in più ruoli e tutti i ruoli sembrano alla vista di tutti. E allora ogni idea, ogni pensiero diventano un’idea ed un pensiero che si offrono agli altri. Un mezzo per parlare agli altri e anche un modo per permettere agli altri di entrare in contatto, di entrare dentro le mie idee e i miei pensieri.

Oggi, dopo un  anno dall’apertura del sito sto imparando a scrivere e a modificare direttamente le mie pagine web.

Giorno per giorno, o, meglio, settimana per settimana, nella home del sito comincerò a scrivere, come facevo un tempo, qualcosa di più personale.

La cosa mi preoccupa. La mia è una scelta. E’ solo una mia scelta.

La scelta di Frigo.